L’India non è solo un luogo, è un’esperienza individuale e personalissima. Quando qualcuno mi chiede di descrivere l’India resto sempre senza parole. Non so mai che cosa dire. Qualunque cosa io possa raccontare non sarebbe mai del tutto esaustiva. Ci sono molti falsi miti legati all’India. E molte persone che restano deluse quando la visitano. Ci sono persone che sono legate ad un’immagine romantica dell’India, come quelle dei libri di Kipling. Ci sono persone chenon accettano il profondo cambiamento che la società indiana sta subendo e rimpiangono i tempi in cui l’India era un Paese del quarto mondo, dove, a detta di alcuni, si respirava spiritualità in ogni cantone. La spiritualità del tipo che piace tanto ad alcuni di noi, opulenti e viziati occidentali in vacanza. Quello dello yoga e della meditazione condotti a nostro uso e consumo, lo stesso esercizio della spiritualità che si può incontrare ancora oggi, ad esempio, in alcuni circoli esclusivi delle nostre città, dove si danno appuntamento oziosissime donnette che ammazzano il tempo alla bell’ e meglio con lo stesso identico entusiasmo reale che metterebbero in un corso di cucina o in una degustazione di vini. Ci sono persone che non accettano che l’India sia fatta anche di furbissimi commercianti, di ladruncoli incalliti, di bramini interessati, dei nuovi ricchi che hanno nel cervello ( ed evidentemente non per colpa loro) l’Occidente come mito e come modello assoluto. Quello che piaceva e affascinava dell’ India, al di là dei suoi paesaggi, era che la sua gente fosse povera e mite, quasi felice di non possedere nulla. Il bambino che guarda il turista con i suoi occhioni fondi, povero, ma secondo i più stupidi, felice, è un’immagine difficile da estirpare dalla testa della gente. Ci sono dei meccanismi strani che toccano la mente di alcuni. A noi i poveri piacciono miti, rassegnati, arrendevoli. Se s’arrabbiano, se si organizzano, se avanzano dei diritti non ci piacciono più, anzi ci fanno paura. Abbiamo nella testa degli schemi borghesi e particolarissimi e siamo capaci perfino di dividere i poveri in categorie, i poveri buoni e quelli cattivi. Gli indiani, per secoli, sono appartenuti alla prima categoria. Ad alcuni di noi piacevano perchè non facevano paura ed erano simpatici, folcloristici. Ed erano facilmente controllabili, dopo 7 anni di feudalesimo Moghul e oltre 3 di sudditanza alla Gran Bretagna.
Ho incontrato persone che hanno trascorso una settimana in India dentro ad un albergo a 5 stelle e pensano di aver compreso tutto, pensano di avere visto l’India.

Sono arrivato in India trentacinque anni fa. Avevo il mio zaino e il sacco a pelo. Non mi serviva altro. Ho viaggiato attraverso l’India in lungo e in largo per conto mio, da solo o con qualche amico del posto, prima di andarci per lavoro, parecchi anni dopo. La mia India era colorata, calda, piena di gente.
Ricordo un viaggio in jeep da Srinagar a Delhi. Venti ore di tornanti in mezzo alle montagne. E poi un treno verso sud, che ci impiegò una settimana per condurmi a destinazione. L’ultima cosa a cui pensavo, allora, era dove avrei dormito e cosa avrei mangiato. Non me ne importava niente di certe cose. Mi lavavo alle fontane e dormivo dove capitava. Ritornavo puntualmente a casa, ma dopo un po’ in India dovevo tornarci per forza. Ci sono un sacco di persone a cui sono profondamente legato in India. Persone a cui devo molto. C’è stato un periodo buio nella mia vita in cui, quando lo sconforto si faceva intollerabile, prendevo i bagagli e mi spostavo in India. Mangiavo con la famiglia che mi ospitava, quella che in seguito sarebbe diventata come la mia famiglia. Mangiavo con le mani un cibo semplice e sano e mi ritempravo. La notte si dormiva tutti insieme con i miei fratelli adottivi, uno accanto all’altro, in un tepore umido come quello della nostra infanzia, mentre una nonna cieca poneva le sue mani delicate e secche sulle nostre e ci cantava delle stofe in urdu che mi riconcigliavano con la vita. Come se fossimo stati i suoi bambini piccoli. L’ India di quel termpo, disperata e sola. Per certi versi lo è ancora adesso. Ci stavo bene per via di coloro che amavo e che mi amavano senza chiedere nulla in cambio. Ricordo mani che si prendevano cura del mio corpo, carezze autentiche e disinteressate, silenzi profondissimi che valevano più di mille parole. Nessuno mi chiedeva nulla, nessuno esprimeva giudizi di valore sul mio conto o su quello di nessun altro. Loro erano comunque dalla mia parte. Dopo avvenne l’incontro con l’Islam e in seguito con il Buddismo. Ma questo è un altro discorso. Mi sono sempre sentito a casa mia in India, non ho mai avvertito alcun disagio, alcuna incertezza. E ho sempre assisitito al cambiamento con stupore, certo, ma anche con grande entusiasmo. A volte penso ancora che all’India serva una rivoluzione: come tollerare senza provare un’enorme tristezza e una grandissima rabbia l’ingiustizia di tutti i poveri che muiono ancora di ignoranza, di malnutirzione, di superstizione, di fame?
Oggi, quando ci ritorno con i miei turisti, avverto molto la mancanza della mia India, quella che ho vissuto fuori e dentro di me e a volte il viaggio non mi sembra altro che una parentesi appannata di quello che in realtà dovrebbe essere. Certo, molto dipende anche dal turista. Ho avuto la fortuna di condurre persone dall’animo accorto e gentile. E allora tutto diventa più semplice e più chiaro.E il viaggio una scoperta, quello che dovrebbe essere sempre. Terminate le visite, finisco per trascorrere le mie serate a parlare con il personale dell’hotel, quando tutti si sono ritirati nelle loro camere. Parlo con i camerieri, con i facchini, con la gente che passa per la strada e si ferma a chiacchierare con me, parlo davanti ad un thé bevuto in pace in un chioschetto sul marcipiede.Ho bisogno della gente e del loro contatto caldo. Ho bisogno di quell’India reale. La mia.